lunedì 20 febbraio 2012

La Rai pretende il canone anche su computer e iPhone

La Rai ha inviato un’ingiunzione di pagamento a 5 milioni di imprese chiedendo il pagamento del canone su qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo: pc, videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza. Il “canone speciale” di abbonamento costerà dai 200 ai 6mila euro l’anno, a seconda della tipologia, per un salasso sul sistema produttivo di oltre un miliardo di euro l’anno. Ma imprese e associazioni di consumatori non ci stanno e parte la rivolta.
Basta possedere un computer, un telefonino o un iPad in azienda per essere costretti a pagare il canone. È quanto hanno scoperto negli ultimi giorni 5 milioni di imprese italiane che hanno ricevuto una lettera, direttamente dalla Rai, contenente un’ingiunzione di pagamento della tassa. Con una novità: non paga solo chi possiede un apparecchio televisivo, ma anche chi dispone di qualsiasi apparecchio in grado di ricevere il segnale televisivo, inclusi monitor per il pc, videofonini, videoregistratori, iPad e sistemi di videosorveglianza.
A motivare l’offensiva della Rai, un Regio decreto del 1938. Il numero 246, per la precisione. Che sentenzia: «Chiunque detenga uno o più apparecchi atti od adattabili alla ricezione delle radioaudizioni è obbligato al pagamento del canone di abbonamento». Secondo R.ETE. Imprese Italia, a cui aderiscono cinque organizzazioni imprenditoriali­ – Casartigiani, Cna, Confartigianato, Confcommercio, Confesercenti – il canone speciale per le imprese costerà ai soggetti dai 200 ai 6mila euro l’anno, a seconda della loro dimensione e tipologia.
«Un assurdo balzello», mette in guardia l’associazione, che aggiunge: «Quella del canone speciale Rai è una richiesta assurda perché vengono tassati strumenti come i computer che gli imprenditori utilizzano per lavorare e non certo per guardare i programmi Rai. In questo momento di gravi difficoltà per i nostri imprenditori, di tutto abbiamo bisogno tranne che di un altro onere così pesante e ingiustificato». R.ETE. Imprese ha inviato una lettera al Governo sollecitando «l’esclusione da qualsiasi obbligo di corrispondere il canone in relazione al possesso di apparecchi che fungono da strumenti di lavoro per le aziende, quali computer, telefoni cellulari e strumenti similari».
La protesta, intanto, sta iniziando a diffondersi tra le associazioni di categoria. In particolare tra i medici di base che, solo perché dispongono di un pc con collegamento ad internet, dovranno sborsare 470 euro. La Fimmg, che ha prontamente allertato i suoi avvocati per approfondire la questione, invita per il momento gli associati a non pagare la tassa. Sul piede di guerra anche i veterinari. L’Anmvi ha preparato un esposto all'Autorità garante delle comunicazioni per verificare «profili di illegittimità della pretesa tributaria della Rai su tecnologie multimediali».
Per Adusbef e Federconsumatori, l’estensione del canone a computer e telefonini «è l'ennesima vergogna, l’ennesimo tentativo di scippo con destrezza che deve essere respinto al mittente. La Rai, un’azienda lottizzata che sempre di più sforna cattiva informazione e servizi spesso taroccati e strappalacrime per inseguire il feticcio dell’audience ha sfornato l'ennesimo balzello, a carico di imprese, studi professionali ed uffici, per imporre un pesante tributo che va da un minimo di 200 euro fino a 6mila euro l’anno a carico di oltre 5 milioni di utenti per un controvalore di 1 miliardo di euro l’anno». Per l’Aduc, «in assenza di una determinazione in tal senso del ministero dello Sviluppo economico che non ci risulta esistere, la richiesta della Rai è illegittima», si legge in un comunicato dell’Aduc. Che aggiunge: «Obbligare un’azienda a pagare un abbonamento tv per il solo fatto di avere dei pc è paradossale. Primo, perché il computer è uno strumento ormai indispensabile allo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, e l’inclusione dello stesso fra gli apparecchi tassati significherebbe di fatto imporre una nuova imposta sul lavoro. Secondo, perché in un momento di grave crisi economica, si andrebbe a colpire d’improvviso il mondo produttivo per un importo superiore al miliardo di euro pur di tener in vita un’azienda, la Rai, gestita secondo il peggiore malcostume italiano».
Finora, la giurisprudenza non sembra lasciare molte vie d’uscita. Nel 2007, con sentenza del 20 novembre, la Corte di Cassazione ha stabilito che «il canone di abbonamento radiotelevisivo non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’ente Rai, che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, dall’altro, ma costituisce una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo». Ancora più stringente la posizione della Corte costituzionale del 1988: «Se in un primo tempo sembrava prevalere la configurazione del canone come tassa, collegata alla fruizione del servizio, in seguito lo si è piuttosto riconosciuto come imposta, facendo leva sulla previsione legislativa dell’articolo. 15, secondo comma, della legge n. 103 del 1975, secondo cui il canone è dovuto anche per la detenzione di apparecchi atti alla ricezione di programmi via cavo o provenienti dall’estero (sentenza n. 535 del 1988)». Insomma, anziché essere il corrispettivo della fruizione di un servizio, il canone si configurerebbe sul presupposto che un apparecchio (tv, pc, telefonino, altro) è «ad una manifestazione, ragionevolmente individuata, di capacità contributiva». Sei così ricco da poter comprare un pc o un telefonino? Allora paga il canone Rai.

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