Quattro anni fa nasceva Google Chrome, il browser che ha sparigliato le carte del mercato ed è oggi vivo protagonista del settore.
“Happy birthday” a Chrome e “Happy browsing” ai suoi utenti. Google festeggia i 4 anni del proprio browser ricordando quella che è stata una idea di sicuro successo, una mossa che ha sparigliato le carte nel settore mettendo in difficoltà tutti i maggiori attori che controllavano il mercato fino a quel punto.
Quando nacque i dubbi erano molti. Buona la prima, si disse, ma il dubbio generalizzato è quali fossero le reali intenzioni di Google nel settore. Una sfida a Microsoft? Un modo per spiazzare Mozilla? Una via verso una nuova dimensione cloud del Web? Un progetto in itinere nella direzione di un futuro sistema operativo (poi effettivamente realizzato sotto il nome di Chrome OS)?
In quattro anni Chrome è diventato il terzo browser più usato al mondo dopo Internet Explorer e Mozilla Firefox: i dati sono in questo caso quelli prelevati da NetMarketShare, ma il confronto numerico è in questa fase inquinato da valutazioni differenti che rendono le statistiche non allineate ed i numeri non omogenei. Poco conta: quel che è chiaro è il fatto che Internet Explorer abbia esaurito definitivamente la propria parabola di crescita (aspettando IE 10) mentre Mozilla Firefox ha iniziato a fare anche i primi passi indietro. Senza Chrome, il mercato dei browser sarebbe ora in regime di rigido duopolio, mentre la creatura di Mountain View ha dato il via ad un mercato frizzante fatto di leggerezza e velocità.
Questa è la promessa del team, infatti: un browser leggero, in grado di velocizzare ogni operazione e facilitare lo sviluppo grazie alla piena adesione agli standard del Web. Nel tempo Google ha inoltre impreziosito l’offerta con una moltitudine di tecnologie ulteriori, ha migliorato il browser dal punto di vista della sicurezza ed a distanza di quattro anni si trova tra le mani un progetto a tutto tondo, adeguatamente nutrito di ambizioni e pensato per portare il browsing su qualsivoglia schermo e dispositivo.
Marck Zuckerberg promette di non vendere azioni per almeno un anno: rinuncia a monetizzare per difendere il proprio gruppo.
Mark Zuckerberg difende il proprio impero e lo fa in prima persona, appostandosi all’entrata del fortino per respingere tutte le malelingue che in queste settimane stanno aspramente contestando il gruppo per il fallimento dimostrato a Wall Street. E per difendere la propria azienda, Mark Zuckerberg passa all’attacco parlando in prima persona con una promessa solenne formulata per tranquillizzare i mercato e calmierare la caduta del valore azionario del titolo FB.
Quel che Mark Zuckerberg annuncia in pompa magna ed a titolo di totale ufficialità (la sua presa di posizione è indicata nero su bianco su di un documento consegnato alla Security and Exchange Commission) è la volontà di non vendere proprie azioni per il prossimo anno. Per 12 mesi ancora, insomma, il numero uno del social network più ampio al mondo si terrà in mano l’intero proprio capitale azionario, rinuncerà a monetizzare la ricchezza accumulata con la propria idea e tenta così di instillare fiducia negli investitori. La prima conseguenza diretta sta nell’evitare di immettere ulteriore offerta sul mercato azionario, il che fungerebbe altrimenti da deleterio stimolo ulteriore al ribasso. Inoltre l’appostamento di vedetta di Zuckerberg funge da garanzia: il capitano non abbandona la nave e, anzi, vi scommette su la propria intera posta.
Le azioni Facebook aprirono in Borsa a quota 38 dollari circa nel mese di maggio con punte di acquisto a 45 dollari. A distanza di 4 mesi il valore si è già più che dimezzato e le prospettive non sembrano essere delle migliori in virtù della sfiducia strisciante che si sta avvinghiando al progetto. L’ultima chiusura sul listino di Wall Street attesta il valore a 17,73 dollari.
Uno studio americano dimostra che una piccola variazione nel rating di un ristorante può causarne il successo o il fallimento.
Tanti saluti alle temutissime guide annuali: il destino dei ristoranti è segnato dal rating online. I ristoratori lo sapevano già, ma fino ad ora nessuno aveva provato a calcolare quanto tale aspetto potesse incidere sulle sorti di una attività nel settore. Lo spiega uno studio di Berkeley pubblicato dall’Economic Journal, che ha stabilito come anche una semplice mezza stella di miglioramento su Yelp possa determinare la possibilità di occupare i tavoli quella stessa sera con differenze fino al 40%. In pratica, la metà del successo o del fallimento di un locale risiede nelle recensioni dei clienti.
I ricercatori si sono concentrati, come si conviene ad ogni studio, su dati ben circoscritti: combinando le recensioni di 328 ristoranti di San Francisco con un database che tracciava le prenotazioni dei posti a tavola. Naturalmente, è ovvio che è complesso, se non impossibile, slegare il giudizio con l’effettiva esperienza positiva del cliente, perciò bisogna partire dalla premessa lapalissiana che un ristorante abbia tante stelle quante merita e che per questa ragione abbia successo, e non viceversa (anche se psicologia comportamentale e sociologia hanno prodotto molte ricerche sull’emulazione come elemento di successo di un dato consumo al di là del suo effettivo valore).
Ciò che importa ai due studiosi dell’università, i professori Michael Anderson e Jeremy Magruder, è la stupefacente discrepanza delle prenotazioni entro piccole differenze di valutazione: due ristoranti con rating di 3,74 e 3,76 di voto possono avere esiti drammaticamente diversi. La distanza tra successo e fallimento è molto più sottile di quanto si immagina. Come conclude lo studio, le differenze nei flussi di clienti tra ristoranti simili «possono essere attribuite completamente alle valutazioni stesse e non alla qualità del cibo o del servizio». Giudizio rafforzato dall’aver notato come eventuali variazioni di menù e servizio non riescono quasi mai a modificare il flusso delle prenotazioni, così come l’aumento del rating porta a più clienti anche in assenza di novità nell’offerta.
Qui sta la questione: quando tra un esito economico positivo e uno negativo si staglia una grande distanza, l’unica risposta possibile è il lavoro, ma quando la differenza è dovuta a frazioni di valutazione online, la possibilità che qualcuno possa cercare la via più semplice, cioè manipolarla, è molto concreta. Non ci sono soluzioni a portata di mano, ma lo studio stabilisce quanto meno un limite da osservare: la mezza stella da 3 a 3,5 e quella da 3,5 a 4 aumentano l’introito economico rispettivamente di 34 e 19 punti percentuali.
Le recensioni sono diventate un fattore saliente nelle decisioni dei consumatori e quindi nel successo economico di un locale, perciò stanno proliferando casi di commenti falsi o recensioni pagate. TripAdvisor ha elaborato, ad esempio, un sistema di punizione (una bandierina rossa) per gli alberghi sospettati di aver inserito finti commenti entusiastici, e ci sono già società al lavoro per elaborare algoritmi e creare software appositi. In fondo, tutto ruota ancora una volta attorno alla vecchia distinzione tra propaganda e comunicazione.
Una tassa su Google News in Germania. Gli editori esultano. Il portavoce di Google: "E' un giorno nero per Internet".
Una tassa sui contenuti indicizzati. In Germania è passata, dopo tre anni di dibattito infuocato, una legge che d’ora in avanti costringerà Google a pagare la proprietà intellettuale agli organi di informazione visualizzati nella sezione Notizie del motore di ricerca. Com’è ovvio, la legge ha raccolto il plauso degli editori e la forte critica dell’azienda californiana, ma anche della sinistra tedesca e dell’influente partito dei pirati, i quali promettono battaglia.
La questione è nota, e pareva essere destinata a restare nei meandri delle leggi-spauracchio di cui sono piene le intenzioni dei parlamenti europei e del congresso americano. Il concetto che sorregge la normativa è elementare: Google News indicizza informazioni contenute in altri portali di informazione (nella sostanza, le microinformazioni dei titoli e delle prime righe), ne ricava pubblicità, ma non riconosce ai veri detentori di questi contenuti il valore di queste informazioni. D’altro canto, nessun paese ha mai legiferato in questo senso, perché alle proteste degli editori si è sempre replicato sottolineando che sarebbe come chiudere un’edicola perché pubblicizza i giornali. L’elemento di “vetrina” di Google News ha, di per sé, un valore economico che invece gli editori non riconoscono a Mountain View.
Il governo tedesco, che a questo punto si candida ad essere la bestia nera di Google (basti pensare al rapporto sempre difficile coi servizi di mappatura), è riuscito ad approvare il discusso disegno di legge, facendo presente che la legge prevede la tassazione solo sui siti informazione a scopi commerciali, con l’esclusione di blogger e associazioni non-profit. Kay Oberbeck, il portavoce a Berlino di Big G, ha subito postato sul suo profilo in Google Plus un commento negativo, con toni che mai si erano sentiti:
Questo è un giorno nero per Internet in Germania. Con questo progetto di legge la ricerca sulla Rete sarebbe enormemente danneggiata. Questo intervento è senza precedenti. Ciò significa minor numero di informazioni, costi più alti e forte incertezza giuridica. La comunità Internet tedesca, i politici di tutti i partiti al governo o all’opposizione, l’economia tedesca, la comunità scientifica, devono rifiutarla all’unisono. Ci auguriamo che il parlamento tedesco riesca a fermare questo disegno di legge.
Opposte le reazioni degli editori tedeschi, ovviamente, che invece ritengono giusto questo disegno di legge, primo in europa a costringere un motore di ricerca a riconoscere il debito di chi indicizza nei confronti di chi è indicizzato. Ma è davvero così? Molti internauti tedeschi stanno già facendo esplodere la polemica sui social network, la forma di protesta più in auge, proposta a Google, è quella del classico boicottaggio: espellere dal portale i detentori di copyright che hanno fatto lobbying su questa legge.